De Reputatione

Recentemente ho letto questa affermazione: "La reputazione è tutto". Lo sguardo è passato oltre, poi improvvisamente si è bloccato, tornato indietro e si è fissato sulla frase.
Mi sono chiesto il perchè di questa affermazione. Perchè la reputazione è tutto? E cos'è la reputazione?

Negli articoletti di giornale o nei consigli domenicali di marketing può venire citato Warren Buffett, celebre  investitore americano. Mi sembra doveroso non essere da meno: diceva infatti "Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se pensi a questo, farai le cose in modo diverso".

Mah.

Questa la definizione di Wikipedia: Il concetto di reputazione attiene alla credibilità che un determinato soggetto ha all'interno di un gruppo sociale.
La sua etimologia latina si riferisce all'azione ripetuta della potatura di una pianta da tutti i rami secchi ed infruttiferi, e quindi per estensione di significato, la reputazione deriva dalla potatura di tutti i cattivi giudizi che possono influenzare la nostra immagine all'interno di una cerchia sociale.

Deriva dall'istinto primordiale degli uomini raccoglitori di mantenere uno status di capobranco, così da probabilmente garantirsi una buona parte del cibo a disposizione e la disponibilità delle femmine più "attraenti" con le quali soddisfare la pulsione di sopravvivenza della specie.
E' sorprendente realizzare quanti dei nostri comportamenti affondano le proprie radici in gesti e pensieri che risalgono a costrutti sociali di millenni indietro.

Tornando quindi alla definizione di Wikipedia, è un determinato gruppo sociale ad attribuire uno status specifico ad un individuo.
I gruppi sociali, analizzandoli, sono molteplici. Non possiamo certamente pensare ne esista uno solo, e ad elencarli tutti soffriremmo di giramenti di testa. In ordine decrescente di grandezza, apparteniamo alla specie umana, alla società europea, alla tradizione ed origine italiana, alle radici regionali, alla cerchia campanilista della nostra città, al grande orticello del nostro quartiere, al club del nocino, al gruppo di tifosi del Milan e pure alla 5°A delle nostre scuole superiori.

In funzione delle diverse e numerose cerchie sociali alle quali apparteniamo, la nostra immagine può cambiare. La nostra reputazione quindi è determinata da persone differenti che possono però condividere obiettivi, principi e valori precisi, a seconda di quale contesto si prende come riferimento.
Ad esempio un calciatore particolarmente goleador sarà giudicato in maniera entusiasta da chi masticherà di calcio, mentre è probabile che il sindacato dei professori di lettere dei licei classici non lo ritenganè  un infallibile scrittore nè uno stimato conoscitore di Pascoli nè di Foscolo.

Viviamo dunque bersagliati da continue opinioni che possono indubbiamente influenzare le nostre future azioni. In quanto animali essenzialmente sociali, in maniera variabilmente conscia tendiamo a farci guidare da quello che le persone pensano di noi, così da guadagnarne la stima.
Questo può essere un fardello, specialmente se teniamo in considerazione che la nostra reputazione dipende in piccola parte da quello che noi abbiamo fatto e in gran parte dal bagaglio emotivo ed esperienziale della cerchia sociale con la quale vogliamo "farci belli". Un'opinione infatti prende forma a partire dai sentimenti (per natura irrazionali) che scaturiscono da bias cognitivi e da esperienze fatte, e non c'è statistica che tenga.
Per esperienza personale, se un dentista con alcune ere geologiche sulle spalle è stato particolarmente antipatico con un paziente, quest'ultimo elaborerà negativamente il suo vissuto e per difesa lo estenderà a tutte le successive occasioni similari: anche il migliore odontoiatra avrà difficoltà a trovare la chiave giusta per mettere a proprio agio il paziente.
E ancora, incontrando una persona nuova, impieghiamo dai 30 a 100 millisecondi per farci un'idea di chi abbiamo davanti. Idea fedele? Improbabile.

Allo stesso tempo la nostra opinione è largamente influenzata da quella degli altri. La reputazione di una persona o di una società spesso precede la sua reale conoscenza, motivo per cui siamo indirettamente condizionati. In modo sottile ed inconscio veniamo suggestionati da quello che la cerchia sociale di appartenenza già pensa - o crede di pensare - ancora prima di poter analizzare a fondo chi o cosa abbiamo davanti, sempre che sia nostra intenzione. Sembra dunque di essere in parte vittime di un meccanismo molto più grande di noi: sia che si debba formulare un parere sia che si abbia l'obiettivo di migliorare la propria reputazione, le variabili in gioco sono innumerevoli e spesso difficili da controllare.

La reputazione è sostanzialmente una credenza. Consiste in una storia che ci raccontiamo e che cerchiamo di rendere il più organica e coerente possibile con le nostre esperienze, con le relazioni e con la realtà vissute ogni giorno. Se ci convince una storia, sarà impresa ardua minarne le fondamenta. Ogni giorno ci raccontiamo delle storie, e l'intera vita di ognuno di noi è basata su storie che sono più o meno condivise. L'esistenza degli stati, di una moneta e della squadra del cuore sono costrutti narrativi in cui vogliamo credere, e a seconda di quanto ci crediamo, saremo disposti a difendere queste storie con più o meno energia e strumenti.
Il medesimo meccanismo può applicarsi ad un'opinione (e per proprietà transitiva, al concetto di reputazione), che sia la nostra o quella di qualcun'altro. Più saremo invischiati, più la cureremo e saremo intimiditi da chi vuole farci cambiare idea.

Costruirsi una buona reputazione richiede energia? Come posso adoperarmi per non rovinare quanto fatto prima?
Ipotizzo che primariamente sia richiesta una buona quantità di energia motivazionale, quindi energia psichica; se la mente pompa obiettivi, il fisico seguirà inevitabilmente. Ad esempio, durante le battute finali di un match sportivo, saranno più la forza e la perseveranza mentali a muovere un atleta - anche se in buone condizioni fisiche - invece che le sue energie muscolari residue. Facendo un passo indietro, quindi, il continuo adoperarsi per mantenere o migliorare il proprio status sociale impegna seriamente la nostra concentrazione e la nostra volontà, talvolta a tal punto da esaurirci psicologicamente. Questo esaurimento potrebbe aggravarsi quanto più cerchiamo di compiacere la nostra platea, perchè rischieremo di discostarci sempre più dal nostro baricentro intenzionale, ovvero il nostro bagaglio naturale di sentimenti ed aspirazioni.

Azzardo un ragionamento. La costruzione di una nomea è un complesso braccio di ferro tra alcune variabili: lo potremmo immaginare come un triangolo a tre vertici tra ciò che noi desideriamo, ciò che il nostro "pubblico" richiede e tutto il complesso sistema di informazioni e credenze che possono precederci.  E' assai probabile che queste variabili non coincidano, e che quindi si debba muovere dalla propria posizione di partenza e disattendere qualche aspettativa, buona o cattiva che sia, nostra o altrui. Obiettivo primario - direi - sarà quello di non allontanarci eccessivamente dal nostro baricentro intenzionale, pena il rischio concreto di esporci troppo e quindi giocare esclusivamente il gioco di qualcun'altro e non il nostro.
Può essere strategico pianificare appuntamenti con sè stessi per verificarsi, per fare analisi e misurare di quanto ci stiamo allontanando da quello che autenticamente desideriamo e a cui aspiriamo. Un margine di discostamento direi sia tollerato.

Molto spesso rimango perplesso da questo tema perchè proprio non fa per me. Fuggo i richiami della competizione - che possono alimentare la ricerca spasmodica di un'ottima reputazione - e di riflesso non mi adopero particolarmente a farmi più bello agli occhi degli altri. Indubbiamente serve un pizzico di sicurezza personale e di consapevolezza di sè stessi, ma è necessaria anche una buona dose di mitezza di spirito.

Torno alle mie tagliatelle ai funghi, la mia fama di cuoco mi precede.

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